Che non potesse più esser considerata solo una semplice mania, era chiaro, ma la gaming addiction cioè la dipendenza dai videogiochi, ancora non era stata riconosciuta come una malattia. La consapevolezza della pericolosità che può scatenare questa dipendenza è arrivata a inizio gennaio, quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità sul suo sito ufficiale ha rivelato che tra le novità che saranno inserite nella versione 2018 del 11th International classification of diseases, ci sarà proprio il cosiddetto “gaming disorder”, cioè l’uso compulsivo di videogiochi.

È di qualche giorno fa la notizia, non isolata, di una bambina inglese di soli 9 anni costretta al ricovero in una struttura psichiatrica a causa della gaming addiction. La bimba si era addormentata più volte in classe, era diventata improvvisamente più aggressiva e problematica, i voti erano drammaticamente calati e aveva smesso di andare a danza e alle sue lezioni di atletica. Sono stati questi gli evidenti segnali che hanno portato i genitori a indagare sull’improvviso cambiamento della figlia che, si è poi scoperto, giocare al videogioco giorno e notte, molto spesso di nascosto, fino a raggiungere il livello più preoccupante, «Pur di giocare, aveva smesso anche di andare in bagno», hanno commentato i genitori.

«Ci troviamo davanti a un caso di dipendenza tecnologica estrema», commenta il Professor Giuseppe Lavenia, psicologo e psicoterapeuta, Presidente dell’Associazione Nazionale Di.Te. «Le caratteristiche che spingono i ragazzi a “ipnotizzarsi” davanti a un videogioco sono molteplici: dalla condivisione del raggiungimento di un obiettivo comune alla paura di tradire i propri compagni di gioco nel momento in cui si decidesse di abbandonarlo. Inoltre, questo tipo di videogioco  permette di connettersi con giocatori di tutto il mondo, di conseguenza non solo le barriere dello spazio, ma anche quelle del tempo vengono meno. Si gioca a tutte le ore e i ragazzi si sentono quasi costretti a non tirarsi indietro, creando così un facile meccanismo ipnotico. Se non sei completamente immerso nel gioco, non puoi portarlo avanti».

Quindi è la tipologia di videogioco a creare la gaming addiction? «Assolutamente no. La colpa non è del videogioco ma della modalità con la quale i ragazzi lo interpretano. Questi non sono dei veri giochi e non vengono vissuti come tali dai nostri figli, per loro è un modo per iperconnettersi con altri coetanei e, secondo loro, relazionarsi con il mondo esterno. Ma ovviamente si tratta di una realtà “mediata”. Se, nel mondo reale, questa bambina avesse incontrato il proprio gruppo di amici in una stanza e avesse deciso di non utilizzare nemmeno il bagno pur di non allontanarsi, cosa sarebbe successo? Le nuove generazioni sono sempre più sole e insicure. Cercano conferme e rassicurazioni tramite il web e sarà sempre più difficile staccarli dalle tecnologie se noi genitori in primis non insegniamo loro a relazionarsi con la vita reale. Dobbiamo stare con loro e spingerli a creare relazioni sociali, essendo noi i primi a crearle con loro.Noi adesso cosa facciamo per i nostri figli? Quali sono i momenti in cui li spingiamo a confrontarsi con gli altri? Se i genitori non danno conferme e non dedicano del tempo ai propri ragazzi, questi opteranno sempre per ricercarle online, spesso contattando persone più grandi di loro, mettendo anche a rischio la loro sicurezza. L’80% dei ragazzi ormai le conferme non le chiede più al genitore ma le ricerca sul web.Stiamo crescendo una popolazione di ragazzi soli e la loro comunicazione passa online perché i genitori non sono più autorevoli. E’ necessario tornare a dire dei no con fermezza. Secondo una ricerca scientifica americana i disturbi ansiosi depressivi, soprattutto negli adolescenti, negli ultimi 20 anni, sono aumentati del 70%. Questo perché molto spesso i genitori lasciano che i loro figli vengano educati da altri loro coetanei tramite la tecnologia. Più li lasciamo soli e più saranno ipnotizzati», conclude Lavenia.

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